Peter Paul Rubens "Venere e Marte"

Venere e Marte (1632-1635)

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Titolo dell'opera:

Già Venere e Marte / allegoria dell'intemperanza

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Autore/ Manifattura/ Epoca:

Peter Paul Rubens (Siegen, 1577 - Anversa, 1640)

Tecnica e misure:

Olio su tavola, 133 x 142 cm

Inventario:

PB 160

Acquisizione:

Brignole-Sale De Ferrari Maria 1889 Genova

Autore:

Rubens, Pieter Paul 1577-1640

Descrizione:

Il dipinto si presenta come un’allegoria, in cui tradizionalmente sono state riconosciute le figure di Amore che disarma Marte, dio della guerra, il quale, attonito, si arrende al fascino procace di Venere e all’ebbrezza provocata dal vino contenuto nella fiasca argentea e nella coppa, offertagli da Bacco, il dio della gioia di vivere. Venere indossa abiti coevi e il suo volto e la sua tornita fisionomia rispecchiano canoni di bellezza comuni nella produzione rubensiana e non appartengono, come volevano gli inventari di casa Brignole-Sale, alla seconda moglie del pittore. Marte, invece, indossa il tipico abbigliamento del lanzichenecco e non è un autoritratto dell’artista, come valutavano i sopraccitati inventari, ma riproduce il volto, identico fin nell’espressione, di un membro della famiglia Van den Wijngaerd, che Rubens ritrasse almeno altre due volte. La Furia che irrompe, a destra, dalle ombre di un paesaggio che, a sinistra, si rivela desolato, arso e sconvolto dalla guerra, è stata realizzata con vibranti tocchi essenziali di bruno e nero direttamente sulla preparazione bruno-rossastra e si contrappone alla sensuosa intensità cromatica e all’intatta luminosità degli impasti delle figure in primo piano, di ascendenza tizianesca. Di recente il soggetto è stato interpretato più genericamente come una Allegoria della Intemperanza, rifiutando l’identificazione dei due protagonisti come il dio della Guerra e la dea dell’Amore (N. Büttner, Corpus Rubenianum, 2018). Capolavoro della tarda maturità dell’artista fiammingo, databile tra il 1632 e il 1635, la tavola è menzionata per la prima volta a Genova nel 1735 circa, quando risultava appartenere a Gio. Francesco II Brignole - Sale nel Palazzo Rosso; secondo una recente indagine, il dipinto sarebbe tuttavia giunto in città da Madrid circa una trentina d’anni prima, probabilmente per tramite di Francesco de Mari. Le vicende dell’opera nel trentennio successivo fino al 1735 sono ancora ignote. dipinto

Epoca:

-

Inventario:

PB 160

Misure:

133 142 cm

Collocazione:

sala 7

Provenienza:

Collezioni Maria Brignole - Sale De Ferrari, duchessa di Galliera, legato, 1889

 

Il dipinto si presenta come un’allegoria: Amore disarma Marte, dio della guerra, che, attonito, si arrende al fascino procace di Venere e all’ebbrezza provocata dal vino contenuto nella fiasca argentea e nella coppa, offertagli da Bacco, il dio della gioia di vivere.
Venere indossa abiti coevi e il suo volto e la sua tornita fisionomia rispecchiano canoni di bellezza comuni nella produzione rubensiana e non appartengono, come volevano gli inventari di casa Brignole - Sale, alla seconda moglie del pittore.
Marte, invece, indossa il tipico abbigliamento del lanzichenecco e non è un autoritratto dell’artista, come valutavano i sopraccitati inventari, ma riproduce il volto, identico fin nell’espressione, di un membro della famiglia Van den Wijngaerd, che Rubens ritrasse almeno altre due volte.
La Furia che irrompe, a destra, dalle ombre di un paesaggio che, a sinistra, si rivela desolato, arso e sconvolto dalla guerra, è stata realizzata con vibranti tocchi essenziali di bruno e nero direttamente sulla preparazione bruno-rossastra e si contrappone alla sensuosa intensità cromatica e all’intatta luminosità degli impasti delle figure in primo piano, di ascendenza tizianesca.
Capolavoro della tarda maturità dell’artista fiammingo, databile tra il 1632 e il 1635, la tavola è menzionata per la prima volta a Genova nel 1735 circa, quando risultava appartenere a Gio. Francesco II Brignole - Sale nel Palazzo Rosso; secondo una recente indagine, il dipinto sarebbe, tuttavia, giunto in città da Madrid circa una trentina d’anni prima, cioè dopo il 1691. Le vicende dell’opera nel trentennio successivo fino al 1735 sono ancora ignote.