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Sarcofago egizio di Pasherienaset
Emanuele N. Figari 1931 donazione
sarcofago
Età egizia tarda - 664 a.C. - 525 a.C.
Unità di misura: cm; Larghezza: 52; Lunghezza: 175,5; Spessore: 45,5
Legno- stuccatura; pittura; verniciatura
Il sarcofago è di tipo antropoide, o mummiforme (ovvero che riproduce idealmente il corpo al suo interno), in legno di sicomoro e contiene la mummia del sacerdote Pasherienaset. È stato rinvenuto probabilmente a Edfu, nell'area della necropoli di Nag el-Hassaia. All'interno dello strato preparatorio non risulta inglobata la tela per coprire le giunture del legno come era tipico nei sarcofagi dell'epoca (per le analisi chimiche e strutturali cfr. inoltre: E. Franceschi, M. Nicola, G. L. Nicola, A. Chimienti, S. Coluccia, ""Indagini non-invasive XRF, rilievi tridimensionali colorimetrici e restauro di sarcofagi egizi della XXVI dinastia: due casi a confronto"", in ""VI Congresso Nazionale IGIIC – Lo Stato dell’Arte – "" Spoleto, 2 - 4 Ottobre 2008). Il manufatto è costituito da 31 elementi lignei trattenuti da cavicchi di legno e stucco. I colori sulla superficie esterna hanno subito variazioni per effetto dell’ossidazione. La superficie del sarcofago, interna ed esterna, è decorata con figure dell’iconografia religiosa funeraria tratte dal Libro dei Morti. Sul capo porta una parrucca tripartita e il volto di colore verde collega il defunto al dio Osiride, dio della vegetazione e dell’aldilà. Anche la barba posticcia allude alla natura divina del defunto. Il petto è ornato da un collare-usekh, collana costituita da più pendenti ispirata al mondo vegetale e terminante in una testa di falco dipinta di rosso su ciascuna delle due spalle. Ai lati della collana, sul segmento superiore delle braccia, sono raffigurate scene di devozione a Osiride; a partire da queste scene si sviluppano, verso le spalle, delle colonne in cui sono riportate formule d’offerta funeraria. Sotto al collare si trova la dea Nut, personificazione della volta celeste (che compare anche sotto al coperchio), mentre accoglie tra le sue braccia il figlio, “l’Osiride” Pasherienaset. La superficie delle gambe è divisa in tre sezioni, di cui la centrale reca testi tratti dal capitolo 89 del Libro dei Morti, riportato in quattro colonne che si estendono fino ai piedi. Il testo auspica il ricongiungimento del ba, una delle anime dell’uomo secondo il credo egizio, al corpo; questa credenza viene riproposta nella scena che raffigura il ba in forma di uccello con testa umana nell’atto di offrire al corpo sdraiato e imbalsamato del defunto un anello-shen, simbolo di eternità. Sotto il letto sono allineati i quattro vasi canopi adibiti al contenimento delle viscere del defunto e legati ai quattro “Figli di Horo” ritratti sui coperchi. Su ciascuna delle sezioni laterali sono raffigurate, sotto una rappresentazione del cielo con stelle a cinque punte, undici figure rivolte verso la testa del sarcofago. Altre formule di offerta funeraria sono riportate sui piedi. Sotto le teorie divine, il serpente “Coda nella Bocca” rinominato in epoca romana Uroboro e simbolo dell’eterno avvicendarsi del ciclo vitale, avvolge l’intero sarcofago con il ricongiungimento delle due estremità in corrispondenza dei piedi. L’estremità del sarcofago corrispondente al capo è circondata da una ghirlanda floreale al cui interno si conserva la parte inferiore della dea Nefti con le ali spiegate e inginocchiata sull’oro nebu, garante di eternità. Sull’estremità opposta si trova la dea Iside con lo stesso atteggiamento mentre tiene in mano una piuma Maat. Sulla parte esterna dell’alveo, in corrispondenza della colonna vertebrale del defunto è tracciata una colonna-djed, ulteriore emblema del dio Osiride di cui si conservano solo parte della base e dell’estremità superiore. Ai lati del pilastro vi sono una serie di riquadri nei quali si conserva, in corrispondenza della spalla sinistra, un’altra figura di Iside con un ankh nella mano destra. Negli altri riquadri sono presenti una serie di altre divinità. Sul fondo interno del coperchio è raffigurata la dea Nut, mentre sul fondo interno dell’alveo la dea Imentet, personificazione dell’Occidente, la terra dei defunti secondo la cultura funeraria egizia.
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Scultura
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Statua di Cerbero
1936
statua zoomorfa
I a.C. - I d.C. - I - I
Unità di misura: cm; Altezza: 98; Larghezza: 40; Profondità: 59
marmo bianco- scultura
La scultura può essere confrontata con altre dello stesso tipo scoperte in varie regioni dell'impero, in genere poste all'interno di tombe in muratura allineate lungo le strade o utilizzate come coronamento delle coperture. L'iconografia deriva da originali orientali diffusi sin dal VII sec. a.C. con la mediazione greca e etrusca; si propaga con la conquista romana in particolare in Iberia, Provenza ed Italia Settentrionale e dà origine ad una variante caratterizzata dalla presenza della testa umana tagliata. Diverse sono state le interpretazioni di queste iconografie da Benoit (1946) ad oggi. Differenti anche le posizioni circa la datazione poichè da parte di alcuni si sottolinea la possibile relazione- per via del luogo di rinvenimento- con una necropoli tardo romana databile tra il III ed il VI sec. d.C. e quindi si propone una cronologia decisamente più tarda. La statua raffigura Cerbero, il feroce cane a tre teste custode dell'Ade, accucciato sulle zampe posteriori in atto di posare la zampa sinistra sulla testa mozzata di un uomo. Il torso massiccio dell'animale, appena sbozzato, è sormontato da tre teste di cane molosso (una ora perduta), di cui la centrale, più grande; i musi, con orecchie drizzate e bocche semiaperte con i denti ben in vista, sono incorniciati da un cerchio di pelo, che scende anche al centro del petto. La testa umana, forse un ritratto, che rappresenta un uomo giovane, con gli occhi chiusi e il volto irrigidito nel gonfiore della morte, è lavorata con accuratezza nella pettinatura a grosse ciocche disposte in più giri, che accompagna il contorno del cranio lasciando scoperte le orecchie carnose. Particolarmente interessante si rivela la coda del mostro, raffigurante come un serpente che aderisce con spire sinuose al dorso e termina con un ciuffo dove è riconoscibile la testa dell'animale con cresta e barba. Pur non essendo un esemplare di alto valore artistico, forse prodotto da un artigiano locale, la scultura costituisce un interessante esempio di sincretismo fra varie credenze funerarie, che ben si inquadra nella cultura mista del centro genuate, non ancora omologata in senso romano: il terrificante guardiano dell'Ade, derivato dalla mitologia greca ed accolto nell'immaginario collettivo classico, è rappresentato con le fattezze domestiche del cane fedele che vigila davanti alla tomba del padrone, tipologia non inconsueta nelle sepolture in Grecia e nel mondo romano, la testa umana mozzata rimanda ai rituali celtici, mentre la coda anguiforme con testa barbuta discende direttamente dall'iconografia infera etrusca.
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Tavola di Polcevera
1506
periodo romano
tavola
II a.C. - 117 - 117
Unità di misura: cm; Altezza: 37.5; Larghezza: 47.5
bronzo- fusione
Restauri in Liguria - Palazzo Reale - 1978
Tesori della Postumia - Cremona, Santa Maria della Pietà - 1998
I Liguri. Un antico popolo europeo tra Alpi e Mediterraneo - Genova, Commenda di Pre - 2004
La tavola fu trovata nel 1506 nei pressi di Isola (Pedemonte di Serra Riccò) da un contadino, Agostino Pedemonte, mentre dissodava il terreno di sua proprietà; subito portata a Genova per essere venduta, la tavola bronzea fu acquistata da un calderaio; ma nella sua bottega uno studioso, forse A. Giustiniani, segnalò il ritrovamento e la sua importanza al governo della città, che acquistandola la salvò dalla imminente distruzione. Un decreto del 1507 ci informa che la tavola venne affissa nel duomo di San Lorenzo, vicino alla cappella di S. Giovanni Battista, per volontà del governatore francese Rodolfo de Lannoy e del consiglio degli anziani che, per l'occasione incaricarono lo scultore Viscardi di eseguire una cornice in marmo bianco atta a contenerla. In data non precisata da alcun documento ufficiale, la tavola venne trasferita dal duomo all'ormai scomparso Palazzo dei Padri del Comune, nei pressi di Palazzo S. Giorgio dove rimase fino al 1838 quando, a causa della demolizione dell'edificio, venne trasferita a Palazzo Ducale, allora sede degli uffici comunali, e depositata nella cassaforte della civica tesoreria. Nel 1850 con il trasferimento degli uffici a Palazzo Tursi, anche la tavola ne seguì la sorte e trovò posto nella sala a destra del vecchio consiglio, l'attuale ufficio del sindaco. Nel 1908, con l'istituzione del Museo Civico di Palazzo Bianco, la tavola venne qui trasferita e murata con la sua cornice cinquecentesca alla parete sud della sala romana, e ancora nel 1929, trovò ulteriore collocazione nell'ufficio del Podestà. Durante la seconda guerra mondiale la tavola venne ricoverata nella tesoreria del comune e, alla fine del conflitto, ricollocata con la sua cornice cinquecentesca nell'ufficio del sindaco. Nel 1978, in occasione del suo primo restauro, fu di nuovo esposta al pubblico per un breve periodo durante la mostra "Restauri di Liguria" e fu allora, infine, che si decise, dopo una lunga riflessione, di cercare una nuova e, questa volta definitiva, collocazione della tavola nel Museo di Archeologia Ligure a Genova-Pegli. Traduzione dell'iscrizione: Quinto e Marco Minucio Rufo, figlio di Quinto, riguardo alle controversie tra Genuati e Viturii, fecero una ricognizione sul terreno e in presenza dei contendenti composero la controversia e stabilirono secondo quali norme dovessero possedere lagro e dove dovesse passare il confine. Ordinarono loro di seguire il confine e apporre i termini e, fatto ciò, di venire personalmente a Roma. A Roma in loro presenza, pronunziarono la sentenza per senatoconsulto il 15 dicembre sotto il consolato di Lucio Cecilio figlio di Quinto e Quinto Mucio figlio di Quinto. Dovè agro privato del castello di Viturii, essi possono venderlo e lasciarlo in eredità. Questo agro non sarà sottoposto a tassa. Confini dellagro privato dei Langati. Dallestremità inferiore del rio che nasce dalla fonte in Mannicelo al fiume Edo ( qui è posto un termine); poi, risalendo il fiume fino al fiume Lemori e per il fiume Lemori in su fino al rio Comberanea, poi per il rio Comberanea in su fino alla convalle Ceptiema (qui sono posti i due termini, di qua e di là della via Postumia). Da tali termini in linea retta al rio Vindupale, dal rio Vindupale al fiume Neviasca, dal fiume Neviasca giù fino al fiume Porcobera, e di lì in giù fino allestremità inferiore del rio Vinelasca (qui è posto un termine); risalendo in linea retta il rio Vinelasca , ove è posto un termine al di qua della via Postumia, e un altro termine al di là della via, dal termine posto al di là della via Postumia, in linea retta fino alla fonte in Manicello, poi giù fino al termine posto presso il fiume Edo. I confini dellagro pubblico che I Laganensi possiedono risultano essere questi. Il primo termine è posto alla confluenza dellEdo e del Porcobera. Di qui per il fiume Edo in su fino ai piedi del monte Lemurino (termine), in su in linea retta per la costa Lemurina (termine), ancora per la costa Lemurina ( qui è posto un termine sul monte che si affaccia sulla cavità), poi su dritto per costa alla sommità del monte Lemurino ( termine), poi su dritto per costa al castello che è stato chiamato Aliano ( termine), poi su dritto per costa al monte Giovenzione ( termine), poi su dritto per costa al monte appennino che si chiama Boplo ( termine); poi lappennino dritto per la costa al monte Tudelone ( termine); poi giù dritto per la costa al fiume Veraglasca, ai piedi del Monte Berigiema ( termine), poi su dritto per costa al monte Prenicco ( termine), poi giù dritto al fiume Tulelasca ( termine), poi su dritto per la costa Blustiemela al monte Claxelo ( termine), poi in giù alla fonte Lebriemela ( termine), poi dritto per il rivo Eniseca al fiume Porcobera ( termine), poi giù per il fiume Porcobera fino alla confluenza Edo- Porcobera, dove è posto un termine. Lagro che è dichiarato pubblico, i Laganensi Viturii abitanti del castello possono possederlo e goderne. Per tale agro i Laganensi Viturii verseranno al tesoro pubblico, a Genova, 400 nummi vittoriani ogni anno. Se i Laganensi non verseranno tale somma e non soddisferanno allarbitrato dei Genuati, a meno che i Genuensi non tardino a riscuotere la somma, in tal caso i Laganensi dovranno verasare al Tesoro di Genova, di tutto quanto sarà stato prodotto nellagro, 1/20 del frumento e 1/6 del vino ogni anno. Chi possederà (un podere) entro tali confini, Genuate o Viturio, alla data del 1° giugno del consolato di Lucio Cecilio e di Quinto Mucio, potrà continuare a possederlo e goderlo. Tali possessori pagheranno la tassa ai Langanensi secondo la loro posizione così come gli altri Langanensi che possederanno e godranno un podere in tale agro. Oltre a questi possessi, nessuno potrà possedere se non con lapprovazione della maggioranza dei Langanensi Viturii e condizione che non faccia subentrare, Genuate o Viturio, per coltivare. Chi non obbedirà al parere della maggioranza dei Langanensi Viturii non avrà né godrà tale agro. Nellagro che sarà compascuo, nessuno proibisca né impedisca con la forza ai Genuati e ai Viturii di pascolare il bestiame, così come nel resto dellagro compascuo Genuate; e nessuno proibisca che vi raccolgano legna e legname e ne facciano uso. La tassa del primo anno i Langanensi Viturii debbono versarla al tesoro di Genova il 1° gennaio dellanno successivo. Per quanto i Laganensi hanno goduto prima del 1° gennaio prossimo venturo, non debbono pagare nessuna tassa se non vogliono. Quando, nellanno di consolato di Lucio Cecilio e di Quinto Mucio, i prati dellagro saranno prossimi al taglio ( i prati dellagro pubblico posseduto dai Viturii Langanesi, di quello posseduto dagli Odiati, di quello dei Mentovini di quello dei Cavaturini), nessuno potrà tagliarvi o pascolarvi senza il consenso dei Langanensi, degli Odiati, dei Dectumini, dei Cavaturini e dei Mentovini, ciascuno per il proprio agro. Se i Langati, gli Odiati, i Dectumini, i Cavaturini e i Mentovini preferiscono costruire, cintare, tagliare altri prati in tale agro, potranno farlo a condizione che la misura totale dei prati non superi quella dellestate passata. I Viturii che, in occasione delle controversie con i Genuensi sono stati giudicati o condannati per ingiurie, se qualcuno è in carcere per tali motivi, i Genuensi dovranno liberarli e proscioglierli prima del prossimo 15 giugno. Se a qualcuno sembrerà iniquo qualcosa di quanto è contenuto in questa sentenza, si rivolgano a noi, ogni primo giorno del mese, e siano liberi da tutte le controversie oneri pubblici. Segue la firma dei legati: Mocone Meticanio, giglio di Meticone. Plauco Peliano, figlio di Pelione. Trad. G. Petracco Siccardi Tavola bronzea di forma quadrangolare.
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Sede:
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